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sandygloves

cosa significa cambiare vita



Ci sono tanti modi per cambiare vita. Possiamo tagliare via le persone tossiche, iniziare una nuova carriera, diventare vegetariani, trasferirci a pochi kilometri dalla casa dei nostri genitori, o in un altro Paese. Potremmo fare delle piccole scelte, come acquistare prodotti che rispettano l’ambiente, vestirci solo con i colori che si abbinano al nostro incarnato, prendere una nuova laurea a 60 anni, iniziare un nuovo sport, tenere un diario, andare in terapia.


Il cambiamento è in tutto, ed è la sua scintilla che ci trasferisce quella scalpitante energia. È eccitazione per una nuova avventura, che non ha bisogno di essere per forza drastica.


Ma cosa succede quando inizi a cambiare tanti tasselli della tua vita e più vai avanti e più non ti basta? Prendi quella decisione drastica.


A volte buttarsi serve per capire, a volte uno si butta e capisce dopo. A volte non si capisce mai o non ci si ricorda cosa ci fosse davvero da comprendere. Nel tempo ho sviluppato un esercizio mentale molto semplice, lineare: Se non fai le cose, non le fai. E: L’unico modo per affrontare un problema, una domanda, è attraversarlo. E io mi tuffo dentro alle domande, ci voglio sguazzare, e mi butto. Una pratica quasi incosciente che mi ha permesso di aprirmi a nuove inaspettate esperienze.


Sono nata e cresciuta a Roma. Ho trent’anni, e da quasi quattro vivo a New York. In questi ultimi mesi, presa dalla frenesia della vita in questo caos elettrico di città, mi sono fermata, incredibilmente, un attimo. Solo a distanza di anni ho compreso cosa significasse l’aver scelto di cambiare tutto. Ho cavalcato l’entusiasmo, l’indaffaratezza di costruirmi una vita altrove, e solo ora ho realizzato. Mi sono buttata quasi bendata.


Mai avrei immaginato quanti compromessi, quanti dissidi, quanti cuori spaccati a metà comportasse un cambiamento così.


Ho sempre lavorato ai miei progetti editoriali fin da quando avevo 21 anni, una laurea in Architettura a 25, e già prima di laurearmi avevo un punto di riferimento, un hub culturale in cui esprimere la mia creatività insieme a menti brillanti con cui ho condiviso un percorso magico. A 26 anni, decido di prendermi un mese di solitudine a New York, pensavo per risolvere alcune domande con me stessa. Il viaggio me ne ha suggerite di più, di domande.


Forse sono stata un filo drastica con le mie risposte. Avevo 26 anni, una realtà lavorativa nascente. Fin da bambina ho immaginato avere un’esperienza a New York, quasi un modo per ricordare la mia nonna Americana con cui sono sempre stata legata. Nei miei viaggi adolescenziali ho sempre amato questa città, ma ora ero grande e mi sono lasciata investire da un’energia che mai avevo captato prima, quasi ipnotica.


“Se non faccio questa esperienza ora, quando la potrò fare? Se il mio lavoro a Roma parte, poi non potrò più fare esperienza altrove? Ti immagini se riesco a farcela nel posto dove, dicono, sia più difficile farcela?” Queste le mie domande. Le domande che si pongono molto ragazzi dopo la laurea, quasi con senso di smarrimento misto ad ansia e aspettative per un futuro che non si riesce ad aspettare.


“If you make it in New York, you can make it anywhere”


I miei sentimenti, e la mia curiosità in quel momento non mi erano affatto di aiuto a tornare con la mente a Roma.


“Ho deciso, ci provo. Sarà solo un’esperienza, poi si vedrà”.


Ho detto di essermi buttata, nel senso che non sapevo a cosa andassi incontro. Ma non nel senso che avessi fatto le cose a caso. Ho passato due mesi alla ricerca di un lavoro, di uno stage. Altrettanti due mesi a fare colloqui a New York. Altri due per ottenere il primo visto. Molto poco per sentire che la mia casa, il mio cuore e la mia energia fosse incanalata altrove.


Appena arrivata, guardavo lo skyline della città come qualcosa di lontano da me. Poi un giorno, mentre tornavo da un weekend fuori New York, l’ho visto in lontananza, lo skyline. E per la prima volta ho pensato: torno a casa. Fa quasi paura pensare che casa tua sia così lontana da quello che prima era il tuo mondo. Eppure questa qui è casa tua, dove senti che vuoi stare. Casa è dove ci sei tu per primo e dove non vuoi più scappare.


Ho pensato la parola casa prima ancora di sentirmi accettata, prima ancora di capire di sapere bene l’inglese e di poter intrattenere una conversazione interessante. Prima ancora che tutto fosse naturale. Quando tutto è diventato naturale, è iniziata la realizzazione, quasi una nuova consapevolezza. Mi sono sentita divisa a metà, lontana da mia madre per la prima volta, lontana dai miei migliori amici e dalle loro vite in cui io ero ogni giorno.


Essere lontano non ti fa essere proprio aggiornato su tutto. Ti fa essere consapevole che se tuo papà sta per morire, non puoi essere subito a Roma per salutarlo un’ultima volta. Ti fa pensare che piano piano tutti invecchieranno e tu non sarai lì con loro. Che qualcuno prenderà la sua prima casa, si sposerà, cambierà città come te e tu non sarai lì.


Essere lontano ti fa sentire di voler essere vicino al posto dove sei, di volerlo capire, di sentirti integrato. Ma ho capito che più ti preoccupi di sentirti parte di qualcosa, più cerchi di mascherare il tuo accento, e più è difficile. Ma ci è voluto un po' prima di ricordarmi che fossi italiana. E lo sarò sempre, punto.


Accettarsi è una pratica costante, è anche un po` una ricerca di radici mai avviata prima. Il mio piccolo rituale a New York è organizzare cene all’italiana, invitare amici vecchi e nuovi, accogliere nuovi arrivati in città e cucinare piatti tipici di una tradizione che ho scoperto di avere e di amare. La tradizione è un ricordo di infanzia, un modo per sentirsi connessi a qualcosa di tuo che si prende cura di te e degli altri. Poter condividere la propria tradizione ha assunto nel tempo un ruolo apotropaico per me.


Una magia utile, ricordarsi chi si è e da dove si viene. Soprattutto per combattere il pregiudizio, di cui per la prima volta nella mia vita ho fatto esperienza sulla mia pelle. Un pregiudizio che mi ha fatto sentire più orgogliosa, invece. Ci ho messo un po’ a realizzare anche questo, dopo tanto tempo trascorso in un misto di senso di colpa e desiderio di integrazione.


L’altro giorno ero in moto a Williamsburg, alzo lo sguardo su un nuovo complesso redisenziale dove campeggia un claim rivolto ai futuri abitanti del nuovo, moderno condominio: “Where you live is what you are”. Una frase usata per farti capire che devi vivere in un posto figo come quello, per essere figo. Ma io la faccio mia. Sono dove ho scelto di vivere, sono dove voglio essere perché è questa la sfida che voglio.


Si potrebbero aprire davvero tanti vasi di Pandora su cosa significhi cambiare vita, trasferirsi in un mondo-altro, avere un confronto con noi stessi. Il cambiamento è una sfida complessa, ma resta il gioco più affascinante per crescere.


Cambiare vita mi ha fatto sentire la felicità e il dolore e la solitudine in nuove vesti. Ma ora so di poter ricominciare sempre, di essere capace a cambiare, di non avere paura e di sentirmi aperta a tutto quello che può succedere lungo questo viaggio.







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